martedì 2 ottobre 2007

Il vino in Giappone - gioia e dolori


Il Giappone, come la maggior parte dei paesi asiatici, con l’eccezione della Cina dove il vino era ampiamente consumato anche alla corte imperiale, non ha una tradizione di produzione, e neppure di consumo di vino. La bevanda alcolica nazionale é il saké, più propriamente detto nihonshu (alcool giapponese) ottenuto dalla fermentazione del riso e non, come spesso si pensa, dalla sua distillazione. Il saké é una bevanda che ha molto in comune col vino nel senso che la qualità del prodotto finito deriva sia dalla qualità della materia prima (funzione della varietà di riso, del clima e del “terroir”) che dalle procedure di produzione. Un altra caratteristica comune alle due bevande é che sia il vino che il sake sono utilizzati nelle cerimonie religiose, cristiane e shintoiste rispettivamente, e sono quindi in una certa misura bevande “sacre”.







Chiusa questa parentesi sul saké, bevanda che comunque meriterebbe più attenzione in occidente, passiamo alla storia del vino nel paese del sol levante. Fino ai tempi della restaurazione Meiji (1868) quando il Giappone si aprì al mondo esterno dopo secoli di isolamento, il vino era semplicemente sconosciuto nell arcipelago nipponico. A partire da quella data, gli stranieri che giungevano in Giappone cominciarono a portare con loro delle bevande alcoliche “esotiche”. Tra queste la birra é quella che sembra meglio corrispondere al gusto locale e rapidamente furono create le prime birrerie. Attualmente la birra è, di gran lunga, la bevanda alcolica più bevuta in Giappone con circa 50 litri pro-capite/anno e quasi 70% del totale dei consumi.



Il vino ebbe decisamente minor successo e si puo dire che fino all’indomani della seconda guerra mondiale il suo consumo fosse inesistente. Il consumo di vino cominciò negli anni del grande sviluppo economico del Giappone, contemporaneamete alla diffusione delle cucina europea, soprattutto francese, negli anni settanta ma rappresentava allora una minuscola nicchia di mercato coperta esenzialmente dai grandi Bordeaux, dallo Champagne e dai bianchi tedeschi, essenzialmente dolci. Negli anni ottanta, e soprattuto novanta il consumo di vino cominciò a diventare piu popolare in Giappone , ma non divenne mai qualcosa di quotidiano. Il vino rimane un prodotto di nicchia (3% delle bevande alcoliche), con una forte connotazione « esotica » e decisamene legato ad un immagine di cultura, di moda e di lusso europee. Nel 1998, in seguito alla «scoperta » delle proprieità salutari dei polifenoli, in Giappone ci fu un vero e proprio boom del mercato dei vini rossi (il cui consumo raddoppiò in un anno), che si sgonfiò assai rapidamente lasciando uno strascico di stock invenduti e di prezzi in calo. Negli anni duemila il consumo é rimasto sostanzialmente costante in termini di quantità (circa due litri pro-capite/anno), ma l’offerta si é diversificata con l’arrivo dei vini del nuovo mondo e spagnoli ed i prezzi si sono stabilizzati.







Una particolarità “sociologica” del mercato giapponese che merita di essere sottolineata é che i maggiori consumatori non sono affatto gli uomini maturi (che bevono birra e sake) ma piuttosto le giovani generazioni e le donne per i quali il consumo di vino costituisce un elemeno di stile di vita moderno, in contrapposizione alle bevande giapponesi ed alla birra che rappresentano la tradizione. Per questa ragione, ed anche perché i giapponesi mangiano fuori casa più che in ogni altro paese al mondo, il settore dei bar e ristoranti rappresenta uno sbocco cruciale per il vino (circa 40% delle vendite).



Ma come si inserisce il vino italiano in questo contesto ? A prima vista le cose sembrano abbastanza rosee, visto che il vino italiano é il secondo più consumato (18% di quota di mercato) in un mercato tradizionalmente dominato dai francesi (47%). Purtroppo, se si guardano un po' più da vicino le cifre e le tendenze recenti, emergono diversi elementi preoccupanti. Innanzitutto le cifre: negli ultimi quattro anni il consumo di vino italiano è diminutito anno dopo anno passando da 38 milioni di bottiglie nel 2001 a 30 milioni nel 2004, mentre la quota di mercato è scesa dal 22 al 17%. Inoltre, a un livello più soggettivo, ho la netta impressione che la moda del vino italiano abbia raggiunto il suo apice e sia in fase discendente.



Le ragioni princpali di questo declino mi sembrano essere due: 1) la stategia di distibuzione; 2) il rapporto qualità prezzo.

1) Riguardo alla distribuzione, come abbiamo visto i ristoranti e i bar vendono una percentuale elevata del vino consumato in Giappone, ma il vino italiano dipende in misura ancora maggiore da questo canale di distrbuzione con più del 50% del totale delle vendite in volume e probabilmente intorno al 70% in valore. Questa situazione si è venuta a creare perché, a partire dagli anni 90, è esplosa una vera e propria moda dei ristoranti italiani. Attualmente pare che, nella sola Tokyo ci siano duemila ritoranti italiani (più o meno veraci) il che naturalmente continua a tirare fortemente la domanda di vini di tutte le gamme, dal vino “della casa” delle pizzerie ai Baroli e Brunelli dei locali di lusso. Ma se la ristorazione è stata certamente un fattore trainante per la conoscenza e la diffussione del vino italiano, quando la moda dei ristoranti italiani comincerà ad attenuarsi, (e forse ha già iniziato) il consumo ne risentirà moltissimo, tantopiù che il vino italiano stenta a conquistare i locali di cucina giapponese e cinese dove il (poco) vino consumato è francese.

2) Sul rapporto qualità prezzo, non mi pare che la situazione giapponese sia diversa rispetto ad altri mercati. In poche parole, se fino a qualche anno fa era possibile comprare senza rovinarsi del vino italiano di qualità, con un carattere ad un identità ben definiti, ora i prezzi sembrano non avere più alcuna relazione con la legge della domanda e dell’offerta. La cosa più sorprendente è che in un mercato mondiale in crisi, i prezzi dei vini italiani (al dettaglio) non siano praticamente diminuiti, anzi… Al contrario, i prezzi dei vini francesi (premiers crùs classés di Bordeaux a parte, comunque venduti allo steso prezzo di un noto Langhe Nebbiolo) sono scesi in maniera sensibile per restare competitivi con i vini del nuovo mondo. E se é vero che i Giapponesi sono disposti a spendere molto (troppo?) per una buona bottigia di vino, non comprano più qualunque bottiglia purché sia cara e incensata dalle guide. Ed allora come stupirsi se una parte dei consumatori giapponesi, a prezzo uguale, preferisce consumare dei vini, soprattutto francesi, che hanno una storia ed una tradizione alle spalle piuttosto che degli IGT dell’ultima ora o dei DOCG che non hanno nessuna tipicità e che in più sono in diretta competizione con i merlot, cabernet etc. del nuovo mondo, assai più economici ed affidabili?

Non sembrano così convinti del declino del vino italiano i responsabili del Vinitaly. Nel 2006 alle tappe della fiera itinerante del vino italiano si è aggiunto infatti il Giappone. Una sessantine le aziende italiane presenti, di queste una quarantina partecipano al workshop commerciale organizzato con 500 tra importatori, distributori, stampa e opinion leader giapponesi.
La trasferta in Giappone arriva in un periodo di ripresa per l’export italiano nel Paese del Sol Levante. “Nei primi 8 mesi di quest’anno – spiega Camillo Cametti, consigliere di Veronafiere, con delega all’internazionalizzazione - l’export italiano di vino in Giappone è ammontato a quasi 62,4 milioni di euro, contro 56,4 dello stesso periodo dello scorso anno. Si tratta di quasi 18,8 milioni di litri, rispetto a 16,7 del periodo gennaio-agosto 2005”.

In Giappone i vini italiani godono di un alto posizionamento e l’aumento dei consumi in atto va sostenuto facendo conoscere, attraverso momenti di cultura enologica come quelli organizzati nell’ambito di Vinitaly Japan, le migliori produzioni italiane e la loro storia, che ben si abbinano con la cultura millenaria del Paese asiatico. I giapponesi, tra l’altro, sono consumatori attenti al prodotto e amano capirlo.
Ne è convinto Naohisa Muto, presidente di Clio International, che importa vini italiani ormai da 12 anni. “Abbiamo scelto i vini italiani – spiega Muto – perché sono i migliori in termini di caratteristiche, livello qualitativo, costo, tradizioni e natura delle persone che lo producono e lo promuovono”.
I giapponesi, spiega Muto, “preferiscono vini corposi, fruttati, sapidi, con sentore di barrique. Generalmente li consumano al ristorante e negli alberghi, che rimangono i canali ideali per i prodotti italiani, mentre i supermercati potranno avvicinare nuovi consumatori a tipologie di vino diverse da quelle attualmente disponibili”.
Le prospettive commerciali sono molto interessanti, perché in questo Paese, che non ha una tradizione enologica, più di due terzi della popolazione di età superiore ai 18 anni beve vino. I consumi medi annuali sono per ora di soli 2 litri pro capite, ma i giapponesi che bevono vino abitualmente hanno consumi simili a quelli europei.

Particolarmente apprezzate (e bravi giapponesi....) le bollicine: ciò è dovuto soprattutto alla sensazione di non eccessiva formalità e di freschezza che manca invece ai vini e sake fermi. Le bollicine stanno propagandosi anche verso gli altri alcolici quali ad esempio whisky e shochu. I giapponesi sembra abbiano riscoperto il piacere di placare la sete estiva con la gioia spumeggiante. Generalmente vanno bene le vendite delle mezze bottiglie, i prezzi ragionevoli e la quantità adatta al consumo in una volta. Nei primi sei mesi 2006 le importazioni di vini spumanti sono cresciute del 37,4% in volume rispetto allo stesso periodo 2005, raggiungendo i 6,1 milioni di litri. L'Italia, con un aumento del 37,6%, è il secondo paese fornitore del Giappone, dietro la Francia.

Il post trae spunto da una riflessione sul vino in Giappone di Paolo Caridi, un appassionato che vive nel Paese del Sol Levante dal 2002 dove lavora per la Commissione Europea, come responsabile delle questioni commerciali in materia agricola. Caridi, ha lavorato in Francia, in Lussemburgo ed in Belgio, dove si è occupato molto attivamente di vino in due associazioni chiamate "Cercle des amateurs du vin des communautées européennes" che raggruppano un paio di centinaia di eurocrati appassionati di vino. Il tutto è stato riportato nel sito winereport.it. Per non limitarmi alla sola impressione di Caridi, per quanto competente, ho svolto altre ricerche e ne sono uscite informazioni contrastanti con quella visione.


Stefano

3 commenti:

  1. Complimenti a Stefano !!
    Bel pezzo !!!

    RispondiElimina
  2. Veramente un bel pezzo, complimenti fetuso !!!

    Una considerazione sull'argomento.
    Mi sembra di capire che i "pochi" consumatori di vino in Japan siano soprattutto giovani, dunque vi è la possibilità che nel tempo il bere vino diventi una consuetudine.


    Marco

    RispondiElimina
  3. Anche se su altri punti le due fonti non concordano su questo mi sembra ci sia sostanziale identità di vedute (anche se implicita nel secondo caso).

    Il dubbio rimane sul consumo del vino italiano e sulle sue prospettive. Le due criticità sottolineate da Caridi sembrano convincenti.

    Il problema è sempre il solito: ragionare come sistema quando si va all'estero. Il vinitaly però si ferma alla semplice promozione. E con l'euro forte....

    Stefano

    RispondiElimina