giovedì 29 novembre 2007

Vino...ma quanto ci costi ?

Da La Stampa.it del 05/11/2007 di Alberto Mattioli con la collaborazione di Roberto Fiori.



Nelle Langhe grande vendemmia, al consumatore la bottiglia costerà il 25 per cento in più

I tartufi, vabbè, ormai oscillano fra i 400 e i 650 euro all’etto e i trifolau girano scortati (o almeno dovrebbero, dopo l’ultima rapina a mano armata stile o il tartufo o la vita). Però stanno impazzendo anche gli alimenti basici: rincari del pane, della pasta, dei pelati. Ma se per potersi permettere la dieta mediterranea bisognerà presto avere un reddito da Golfo persico è colpa anche della più italiana delle bevande: il vino. D’accordo che l’attuale mania per cibo e dintorni ha generato troppi gastrogonzi di cui approfittano troppi gastrostronzi, ma sta di fatto che gli aumenti prossimi venturi della bottiglia saranno del 20-25 per cento per i vini di base e del 10 per quelli di fascia medio-alta. Insomma, se con il barile a cento dollari il petrolio è sempre più l’oro nero, il vino sta diventando l’oro rosso (o bianco, o rosé). Capire perché non è facile, nemmeno nei dintorni di Alba, dove fra viticoltori, produttori in proprio o consorziati, grossisti e ristoratori si gioca, il caso di dirlo, allo scaricabarile.

Cominciamo dall’inizio. In principio, almeno per il vino buono, c’è l’uva. Chi ci vive in mezzo da una vita è Pierino Barbero, due ettari e mezzo di vigne a Sant’Elena di Castino piantate a Dolcetto. Il suo commento, invece, è amarissimo: «Quando vediamo in enoteca il prezzo del vino fatto con le nostre uve, noi agricoltori dovremmo metterci a piangere». Addirittura... «Sì, perché di passaggio in passaggio, cioè da me al produttore, dal produttore al distributore, dal distributore all’enoteca o al ristorante, il chilo d’uva che io vendo a 70 centesimi diventa una bottiglia da 6 euro, che magari in un locale di Torino o di Milano sono anche 12». Già, ma le colpe, concesso e non dato che guadagnare il più possibile lo sia, di chi sono? Barbero è equanime: «Anche nostre, intendo di noi produttori. Intanto perché abbiamo alzato troppo il target del nostro vino. Il Dolcetto è diventato un vino “della domenica”, non da tutti i giorni com’è sempre stato. Ma questo ha favorito soprattutto quelle cinque o sei grandi marche che lavorano per l’esportazione. E poi perché abbiamo allungato troppo la filiera. Quando ancora lo producevo in proprio, io ho sempre venduto il mio Dolcetto in damigiana, direttamente ai consumatori che poi diventavano miei amici e mi portavano i loro. Venivano la domenica in macchina, ci caricavano qualche damigiana, pagavano meno loro, guadagnavo di più io. Non si fa più. Colpa dello snobismo della bottiglia».


Altro giro, altro parere. Si attraversano paesini incantati sormontati da castellozzi che hanno i nomi di grandi etichette o di medaglie d’oro del Risorgimento. Più o meno fra quelle di Cavour e di Einaudi, due secoli di liberalismo uniti dal Barolo, ecco la cantina di Gigi Rosso, 76 anni, uno che parla di vino a ragion veduta per due buone ragioni: ha appena festeggiato la sua cinquantaquattresima vendemmia ed è il presidente della Consulta vitivinicola. Lui produce Barolo, che sta ai vini italiani come il Re Sole ai suoi cortigiani, ma spiega subito che anche solo un piccolo aumento del costo della manodopera, o del tappo, o del vetro o dell’etichetta «influisce in proporzione molto di più sul prezzo delle bottiglie di livello basso che quelle che esporto io per i miei clienti storici in Germania o per i nouveaux riches russi, che poi magari bevono il Barolo ghiacciato. Resta il fatto che quest’anno l’uva è aumentata quasi del 20 per cento. Poi, certo, io compro un chilo di uva a 2 euro e 20 centesimi al chilo e vendo una bottiglia di Barolo a 15 euro e 90, più l’Iva del 20 per cento e meno uno sconto del 10 per i grossisti più grossi».

E allora ci guadagna troppo! «No, perché il Barolo è un vino difficile che va seguito come un bambino. Me lo tengo tre anni in casa, in botti di rovere di Slavonia, accudito sette giorni su sette con travasi, scolmature, controlli. In tre anni ne evapora il 7 per cento, poi devo avere il certificato di idoneità e le fascette di Stato, perché tutte le bottiglie sono numerate e certificate e non si può sgarrare. Piuttosto che fare le fascette false, meglio mettere su una stamperia di euri: si rischia di meno. Ma è giustissimo: il consumatore va garantito. Noi lavoriamo sulla qualità». L’assaggio, in effetti, conferma.

Si riparte fra belle colline e vigne magnifiche che sembrano svaporare nella foschia. Nelle Langhe è un autunno glorioso, una di quelle giornate da celebrare con una buona passeggiata, un ottimo pranzo e un pisolino perché il sonno della ragione generi la digestione. Ma si deve sentire ancora il parere degli indiziati numero uno per il caro-vino, almeno quello che si beve fuori casa: i ristoratori. Fabrizio Fassinotti, due locali in zona fra cui quello del castello di Grinzane Cavour, è anche il presidente della locale associazione di categoria. Si difenda. «C’è poco da difendere. Guardi la mia lista. Qui trova un buon Barolo a 30 euro la bottiglia, a Torino magari sono già 45, a Milano 60 e a Francoforte ancora di più. È anche una scelta strategica, che varia da ristorante a ristorante, perché se nel mio ho i bicchieri di cristallo di Boemia e un cameriere per tavolo in qualche modo devo pagarli. C’è chi ricarica sui piatti, chi sul servizio...»


E chi sul vino... «Guardi, io ho fatto per due anni il sommelier al “Cambio” di Torino. Per un ristorante, anche importante, quello sul vino è un grande investimento. Da quando i vini “escono” a quando li servi devi aspettare quattro o cinque anni, poi c’è un 8-10 per cento di bottiglie che sanno di tappo, eccetera. E intanto hai investito un patrimonio che è lì, fermo. Poi possiamo dire che magari in effetti la filiera è troppo lunga, che certe volte il rappresentante che fa da tramite fra la cantina e l’enoteca o il ristorante non serve a nulla. E possiamo anche aggiungere che certi vini costano troppo, ma è una questione di griffe. Crede davvero che certi jeans valgano 400 euro al paio? Si paga la marca».
Quindi il consumatore è il solito pollo da spiumare... «Ma no, adesso la gente è molto più attenta. Se Wine Spectator ha messo in copertina un servizio sulle bottiglie da meno di 20 dollari vuol dire che perfino in America la gente ha capito che non ha senso pagare qualsiasi cifra per una bottiglia qualsiasi».
Insomma, per questi aumenti non è colpa di nessuno. «Ma se aumenta tutto, volete che non aumenti anche il vino?»
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Mi sembra un pezzo molto interessante da commentare insieme.
Avanti non abbiate paura, siamo tra amici...

2 commenti:

  1. Che il costo della vita sia aumentato non lo diciamo noi, lo dicono numerovoli ed eminenti studi di ricerca e statistica a livello nazionale.
    Il vino è nel carnet di prodotti che secondo me è aumentato di piu'...per tanti motivi.
    Perchè non è proprio un bene primario....
    Perchè in questo momento è "di moda"...
    E perchè si sono aperti nuovi mercati, dieci anni fa poco trainanti, che assorbono quantità impensate di prodotto.
    Detto questo, per chi gioca a fare l'appassionato o per chi realmente ci capisce, penso sia giusto mettere dei paletti importanti.
    Ognuno ragiona con le proprie tasche e con la propria testa, ma per alcuni vini ormai si parla di prezzi assurdi...moralmente avvilenti.

    Altro discorso è quello piu' tecnico legato ai prodotti diciamo di "base" che hanno visto salire il prezzo a causa di una filiera che è diventata piu' lunga del sensato umano comprendere che tende a far guadagnare troppi e a spennare(viene detto così nell'articolo..) il cliente, magari appassionato, finale.
    Su queste cose magari ci torna con maggior incisività il dottor Stefano...


    Marco.

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  2. People should read this.

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