martedì 24 aprile 2007

A proposito di Moratti



Tratto dal Blog di Beppe Grillo (quello che tutti criticamente dovrebbero leggere):
Il fratello scarso è una figura ricorrente nella Storia d’Italia. I parenti lo affidano di solito al fratello più sveglio che gli fa da padre per tutta la vita. Massimo Moratti è il fratello scarso dei fratelli scarsi. E’ riuscito ad offuscare persino Paolo Berlusconi. Gli si perdona qualunque cosa, anche le intercettazioni a Bobone Vieri. La famiglia per evitare danni lo ha nominato presidente dell’Inter. Gli ha concesso un vitalizio di qualche decina di milioni di euro all’anno per i giocatori. Lui è contento così.
Ogni tanto il fratello maggiore Gianmarco gli chiede di mettere una firma sui collocamenti. La gente si fida di lui, del suo aspetto da Bugs Bunny buono. E così è stato anche per il debutto di Saras in Borsa. I Moratti hanno incassato 1,7 miliardi di euro, ne avevano bisogno per rinforzare la squadra. Il titolo fu quotato a 6 euro in un momento di crollo del settore energetico. Chi lo comprò perse il 12% in un solo giorno. Jp Morgan e Morgan Stanley, le banche responsabili del collocamento, guadagnarono 12 milioni di euro a testa grazie alle oscillazioni.
Riassunto: qualcuno decide che il prezzo di 6 euro è giusto, i risparmiatori ci credono, comprano, perdono. I Moratti e le banche ci guadagnano e la procura indaga. La Consob dov’era? Cardia illuminaci.
Lo scudetto di ieri non lo ha vinto l’Inter. Infatti il marchio non gli appartiene più da tempo. Lo ha venduto alla Inter Brand srl per 159 milioni di euro. La Procura sta indagando per l’ipotesi di “buchi in bilancio per cui non ci sono indagati”(Corriere della Sera). Sono sicuro che è un’ipotesi che si dimostrerà priva di qualsiasi fondamento. Massimo vince, ma senza rubare.

1 commento:

  1. Per par condicio:
    Moratti,rivincita di un gentiluomo.
    "«Scusi, posso?» .
    Massimo Moratti ha un gar­bo che viene spesso scambiato per timidez­za. In parte lo è. In parte è accorgimento retorico. Crea un anticlimax che poi sconcerta quando si passa al sodo. E che permette di ottenere un van­taggio in qualsiasi confronto. In parte è stile. O meglio weltaschaung, direbbero i tedeschi, visio­ne del mondo. A Moratti piace appartenere alla categoria degli uomini che vogliono chiedere sempre. Chiedere permesso per cose di cui si ha diritto è segno di rispetto che si offre e, al tempo, si impone.
    «Scusi, posso?» . A poche ore dalla prima gran­de sfida di Champions League con il Milan (mag­gio 2003, il doppio derby concluso con l’elimina­zione nerazzurra, ma con due pareggi), il presi­dente chiede di poter parlare alla squadra. Chie­de. Le riunioni tecniche sono già un pezzo della gara. Sono dominio degli allenatori, gelosi e pre­occupati delle distrazioni che potrebbero interve­nire. Allena Hector Cuper, di solito diffidente ver­so la retorica. Moratti chiede con timidezza, ma quando entra in quella saletta che, ad Appiano Gentile, ospitava le riunioni tecniche, la squadra scatta in piedi. La voce fioca cambia in un niente. Bastano un paio di toni più alti, le cose da dire ar­rivano subito. Cosa significa il derby, cosa signi­fica essere interisti, cosa significa provare a vin­cere. Cosa significa avere un costante debito con la gente che aspetta, aspetta, aspetta. Cosa signi­fica la storia dell’Inter e la passione per il calcio.
    LA SALETTA DI APPIANO Quel discorso è andato per­so nelle memorie o nelle emozioni di chi c’era. Fosse possibile riprodurlo si comprenderebbe perché un signore della straordinaria forza econo­mica, politica e finanziaria come Massimo Morat­ti, anziché consacrare la sua vita ad altro, abbia dato gran parte della sua inventiva, delle sue emo­zioni, della sua energia al calcio. All’Inter. I gio­catori capiscono, quel giorno, e la squadra di Cu­per disputa una partita di cuore, di fegato, di clas­se. Inchiodando sullo zero a zero il Milan poi cam­pione d’Europa, meritando una larga vittoria che non arriva.
    Ripensare a quelle parole permette ai pensieri di sciogliersi. In questa epoca, tredicesimo anno dell’era Moratti, hanno detto e pensato di tutto del presidente più anti-sistema del nostro calcio. Più distante dai suoi colleghi e da questo mondo, più vicino, oltre ogni altra esperienza, alla passione vera, Moratti è un’icona inutilizzabile. Il calcio adesso è quella carcassa che ci hanno lasciato, sfregiata da uno scandalo inimmaginabile, e dif­ficilmente potrà rimettersi in piedi con gli uomi­ni che per decenni lo hanno fiaccato, prosciugato, demolito, depredato. Di questi uomini Moratti ha la disistima che tributa a chi non fa niente per sembrare intelligente. E’ questa l’accusa più du­ra che riesce, Massimo Moratti, a formulare ver­so chi non stima: «Stupido!». Può sembrare snob. Persino autoritario. Ma è il giudizio più tremen­do verso chi non è all’altezza della missione che ha di fronte, per superbia o poca intelligenza.
    CON IL SUBCOMANDANTE Se non fosse stato presi­dente dell’Inter, gli hanno detto, poteva diventa­re un Guggenheim, per i soldi spesi e per il buon gusto mal impiegato nel pallone. «Avrei compra­to il Louvre con la sua sensibilità e le sue risorse» , sostiene uno dei più grandi esperti d’arte milane­se e, a tempo perso, maestro di diritto. «Quanto ha speso per l’Inter in questi anni? Ci saremmo do­tati dell’aviazione» , disse un colonnello zapatista dalla Selva Lacandona, familiarizzando con il nuovo amico alteromondista che ha offerto la sua personale solidarietà agli indigeni chiapanechi in resistenza. Di Moratti si pensa benissimo all’este­ro. In Messico, per le cose che pensa e che fa, è considerato come lo storico e politologo Howard Zinn o come il linguista liberal Noam Chomsky. Scherza, Moratti, con il comandante Marcos: «La rivoluzione comincia dalla propria area e si con­clude in quella avversaria» . Marcos gli dice: «Ti batterò con lo schema 1-1-1-1-1-1-1-1-1-1-1» . «Gra­zie, gli risponde, ne metti in campo uno in più»
    (occhio clinico, evidentemente, pensando a Mas­simo De Santis).
    LA CHIESA E GINO STRADA ll signor Xanana Gusmao, leader guerrigliero, isolato e apparentemente bat­tuto, un nobile signore di Timor Est, grazie al free­lance poi martire in Iraq, Enzo Baldoni, diventa interista. E Gusmao inizia il suo carteggio con il presidente della squadra del cuore. Conquista l’indipendenza e diventa presidente di Timor Est. L’Inter comincia a vincere da lontano. Il cattoli­cesimo di Moratti è, a suo dire, persino bigotto. Moratti, però è la persona di pensiero più aperta che il suo modello sociale possa concepire. E se i figli dubitano di questa Chiesa, li accompagna nell’esercizio del dubbio, anche se non ne condi­vide gli approdi. E’ rispettato ugualmente da ve­scovi, cardinali e dal più dissacrante materialista ateo come Gino Strada. Ha inventiva e curiosità, ma fino ad ora per questa maledetta faccenda - il calcio e l’Inter - è bollato come un perdente.
    LA TENTAZIONE DI LASCIARE In questi anni di sconfit­te, però, impone un registro. Non imboccare scor­ciatoie buie. «Si ricordi - disse poco prima di la­sciare la presidenza a Giacinto Facchetti - nella mia vita ho capito che Giacinto non farebbe mai una cosa fuori posto. Per questo ha tutta la mia fi­ducia. Lo so come se avessi già letto il suo futuro. Conosco il suo passato». In questo decennio ha avuto almeno tre volte la tentazione di lasciare, non ha mai ricevuto concrete offerte, tre anni fa, probabilmente, ce ne fosse stata una, avrebbe ac­cettato. Ha provato delusioni tremende, dal 5 maggio, alle gare di Champions perse per un sof­fio. O subite come una slavina. Ha visto lanciare motorini, ha saputo a distanza delle dabbenaggi­ni sui passaporti, ha assistito a derby sospesi per l’insurrezione di una curva. Ha sospettato, esor­cizzato e poi perdonato e salvato tutti (meno Fac­chetti e l’avvocato Prisco, sempre ammirati). Ha fatto errori e ingoiato persino troppo dalla gente alla quale offriva la buona fede.
    LO SCUDETTO BIANCO Ha perso sospettando sempre che dietro di lui, e alle spalle dell’Inter, si tramas­se. Sempre meno, in realtà, di quello che poi è sta­to. Ma ha sempre creduto di potercela fare. Nel senso di non farsi soffocare dall’aut aut. O ti ade­gui a questo calcio, o scomparirai. Non si è ade­guato, ha continuato a perdere, mentre gli intor­tavano, alle spalle, i campionati (e ora sappiamo con quale scientificità): è stato il suo più grande merito. Le decine e decine di miliardi di lire e i milioni di euro bruciati in un campionato che non ha visto, per anni, il rispetto delle regole, sono le ferite che si porta dietro. Le umiliazioni subite e i sorrisetti che si infilzavano come spilli, nelle riu­nioni di Lega, lo hanno persino fatto diventare cat­tivo. E allora ha voluto lo scudetto cucito sul pet­to della squadra, dopo le sentenze di Calciopoli. Anche se avrebbe voluto sparigliare pure que­st’ultima volta: fuori tempo massimo ha pensato ad uno scudetto bianco da mettere al posto di quello tricolore. Il calcio che non c’è portato in gi­ro per il mondo da una squadra che c’è: una squa­dra degna. La sua.

    copia-incollato dal Corriere dello Sport di lunedi 23/04/2007

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